In India i dati più aggiornati sul lavoro minorile sono quelli del censimento del 2011. Le autorità avevano definito come “economicamente attivi” almeno 10,1 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni, la maggior parte dei quali, circa 8 milioni, viveva nelle aree rurali. Anche per questo in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile del 12 giugno scorso la Peoples’ Vigilance Committee on Human Rights (Pvchr) di Varanasi ha pubblicato un reportage dalle cave del Bihar e del Jharkhand realizzato in collaborazione con Ravi Mishra, artista e fotografo di Delhi. L’obiettivo dell’indagine è denunciare lo sfruttamento di migliaia di minori costretti a estrarre la mica, una sostanza essenziale per l’industria cosmetica e delle automobili. La produzione del “più oscuro segreto di bellezza”, infatti, “oggi in India ruba l’infanzia a 20mila bambini” ha spiegato Mishra, un destino che per Lenin Raghuvanshi, direttore esecutivo del Pvchr non è scritto, ma rappresenta “una delle più odiose violazioni dei diritti umani, che provoca un impatto negativo direttamente sulla vita, la salute e l’educazione dei bambini”.
L’India oggi è il più grande produttore al mondo di mica, pari al 60% della produzione globale, un settore industriale importante dove “lo sfruttamento dei bambini nelle miniere è molto comune per la loro piccola statura e le agili mani che riescono a entrare con più facilità nelle cavità per selezionare più velocemente i piccoli pezzi di mica” ha spiegato Raghuvanshi. Da soli, gli Stati di Jharkhand e Bihar producono il 25% del totale nazionale. Gli scatti di Mishra dimostrano quali e quanti siano i pericoli che corrono questi bambini “economicamente attivi” ai quali “il lavoro nelle miniere illegali e senza regolamentazione genera rischi di lungo periodo per la salute oltre che aumentare un analfabetismo allarmante”. Anche se nel1980 l’India ha varato una legislazione per limitare la deforestazione, costringendo alla chiusura molte miniere di mica nel rispetto di rigorose regole ambientali, l’enorme domanda di mica ha fatto proliferare le miniere illegali in tutto il Paese. Così per estrarre il minerale luccicante, ha ricordato Mishra, “ogni giorno centinaia di bambini rischiano la propria salute nelle miniere fantasma. Molti di loro muoiono sepolti in gallerie buie e pericolanti. Il 90% delle morti non viene nemmeno segnalato, a causa delle attenzioni non gradite che esse rischierebbero di suscitare nell'opinione pubblica”.
Che fare? Per contrastare lo sfruttamento in queste aree il Pvchr offre istruzione gratuita e corsi di formazione per le donne, ma non basta. Il proliferare del lavoro minorile in molte occasioni è dovuto alla grande povertà delle aree rurali, dove “spesso mandare i figli a estrarre la mica è l’unico mezzo di sostentamento”. I bambini, inoltre, vengono pagati solo un dollaro ogni 10 kg di minerale separato, per il reportage di Pvchr un doppio sfruttamento, sia minorile che economico, visto che secondo i dati ufficiali “nel 2015 l’India ha prodotto 19mila tonnellate di mica, ma ne ha esportate 140mila”. I profitti del mercato illegale, quindi, “sono enormi e vengono fatti sulle spalle dei bambini, che la maggior parte delle volte nemmeno conoscono il nome della pietra che hanno in mano. Ma ciò che conta è che il lavoro minorile fa scintillare il mondo: questa è la vergognosa verità dietro il luccichio del make-up minerale e il glamour delle automobili” ha concluso Mishra. Ma se l’India ha ancora molte difficoltà a contenere il lavoro minorile, in Cambogia non va meglio, anche se il ministero cambogiano del Lavoro e della formazione professionale il 5 giugno scorso ha sollecitato tutti i dipartimenti competenti ad utilizzare il Codice penale per perseguire i proprietari delle fornaci che ricorrono al lavoro minorile.
Con questa nuova direttiva i proprietari delle fabbriche di mattoni che impiegano minori rischiano la reclusione e negli impianti di produzione sono diventati obbligatori avvisi grandi e chiaramente visibili che vietino ai minori (spesso analfabeti...) l'accesso alle strutture, visto che anche il solo accesso casuale di bambini implicherebbe delle accuse penali per i proprietari. Le disposizioni del ministero sono state prese in seguito al grave incidente verificatosi lo scorso 9 marzo nel comune di Preah Prasap nel distretto di Khsach Kandal, quando Chheng Srey Pheak, di nove anni, è rimasta vittima di un incidente sul lavoro: il suo braccio è rimasto incastrato in un macchinario e a causa delle ferite è stato necessario amputarlo. Come ha ricordato padre Luca Bolelli, sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) che da quasi 12 anni è parroco del villaggio di Kdol Leu, nella provincia cambogiana di Kompong Cham, “Nell'immaginario culturale non desta scandalo che un bambino lavori, soprattutto nei contesti di maggiore povertà”. Per Bolelli, che serve in una comunità che vive in un contesto rurale, “qui è normale che i bambini aiutino le famiglie nelle fornaci o nei campi. Questo è dovuto in parte al senso del dovere, dell’obbedienza e del sacrificio, che la cultura locale impone ai figli”.
Per padre Bolelli la crescita economica ha proiettato la Cambogia verso la modernità, ma non sempre i diritti civili, economici e umani hanno seguito lo stesso sviluppo: “Riscontro timidi passi in avanti sul fonte dei diritti dell'infanzia, ma a mio avviso, disposizioni come quelle del ministero sono più che altro imposte dagli standard internazionali di organizzazioni come l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (Asean)”. Per questo l’urgenza in Cambogia e non solo lì, rimane quella di “contrastare l’idea che chi non produce è inutile per la società” soprattutto se si tratta di un bambino. Purtroppo in questo percorso culturale e sociale la strada da fare è ancora lunga in tutto il sud est asiatico, dove solo qualche anno fa secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), erano 17 milioni i bambini “economicamente attivi” e uno su cinque di loro aveva meno di 11 anni. “Benché ci sia un calo del numero di bambini che lavorano su scala mondiale - ha recentemente ricordato Corinne Vargha, responsabile del programma per i diritti fondamentali del lavoro per l’Ilo - la maggior parte di loro rimane diffusa in Asia e nel Pacifico, ma è soprattutto in Asia meridionale che la portata del problema è ancora molto preoccupante”.
Alessandro Graziadei
Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.